La leucemia mieloide cronica è probabilmente l’esempio più chiaro di come Ricerca clinica e di laboratorio abbiano proceduto fianco a fianco sino a raggiungere un obiettivo tanto ambizioso quanto straordinario. Ricerca, questa parola così propositiva, che si rinnova ogni giorno, si Ricerca qualcosa che per definizione mai si raggiunge perché ogni tappa è il punto di inizio della tappa successiva.
Questa che segue sarà una narrazione da spettatore privilegiato, essendo stato a lungo al “Seràgnoli”, culla della Ricerca medica e di laboratorio proprio della mieloide cronica.
Il percorso iniziale è una storia di sconfitte, la mieloide cronica nasceva nel tumulto di tanti globuli bianchi e di una grande milza, ebollizione che nel giro di pochi mesi o anni portava il Paziente alla morte. Un cervello maligno guidava questa marcia poco trionfale, cervello che, si sapeva, doveva esistere ma ci sono voluti tanti anni per capirne i contorni sfumati poi l’identità e infine i punti deboli e le armi per combatterlo efficacemente.
La Ricerca all’inizio si concentrò sul capire quale fosse quel cervello, la guida e il mandante. Peter Nowell, un Ricercatore, e David Hungerford, uno studente molto brillante dell’università di Philadelphia, alla fine degli anni ’50 iniziarono a studiare le anomalie citogenetiche, vale a dire le alterazioni dei cromosomi in corso di malattie maligne. Studiando questo tipo di patologie, inclusa la mieloide cronica, si resero conto che queste anomalie erano variabilmente presenti in tutte le malattie studiate. La mieloide cronica aveva una particolarità: nelle cellule del midollo osseo era sempre presente un piccolo cromosoma atipico (venne chiamato cromosoma di Philadelphia). Questo cromosoma atipico, cioè questa anomalia del DNA, era fortemente sospettato di essere il cervello della malattia, non solo un marker (cioè un segno distintivo).
All’epoca, era il 1960, non c’erano terapie efficaci (per efficaci intendo terapie in grado di cambiare il corso naturale degli eventi, la storia naturale della malattia) ma solo terapie che miglioravano la qualità di vita, riducendo il numero dei globuli bianchi e le dimensioni della milza con farmaci assunti per bocca quali il busulfano. Ma l’aspettativa di vita dei Pazienti non cambiava rispetto al periodo storico (attorno al 1920) durante il quale non veniva fatta alcuna terapia. Insomma, ci si era dotati di un ombrello un poco malandato ma l’obiettivo era far cessare la pioggia! Dal 1960 al 1973 cambiò poco o nulla riguardo alla terapia: la Ricerca procedeva con la tecnologia disponibile all’epoca, lentamente. Il misterioso cromosoma di Philadelphia tale restava.
Nel 1973 si capì che il cromosoma di Philadelphia portava in seno una ben definita traslocazione, cioè lo scambio di pezzetti di DNA fra cromosomi diversi, nello specifico fra il cromosoma 9 e il 22.
La nostra vita si basa sul concerto perfetto dei geni, ciascuno dei quali addetto al confezionamento di una specifica proteina che andrà poi a far parte dei nostri tessuti (proteine muscolari, nervose, adipose etc.). Le regole sono ferree! Se si infrangono può insorgere un problema grave, come una leucemia. A causa di questa traslocazione si era infatti costituito un gene maligno che nella cellula normale non esiste. Queste bizzarrie delle cellule maligne sono molto spesso dei semplici epifenomeni (un elemento accessorio che non ha ricadute particolari su quanto sta accadendo): le traslocazioni sono sì un segno di malignità ma non rappresentano molto spesso il cervello che governa quel fenomeno. Anche il cromosoma di Philadelphia all’epoca rappresentava solo un fatto descrittivo, una evidenza di laboratorio che tale rimaneva, ancora si era lontani dalla comprensione definitiva del problema.
Ma ci si è chiesti, quale legame esiste fra questa anomalia e la mieloide cronica? E il destino terribile e inluttabile dei Pazienti con LMC come “passa” attraverso questa anomalia così piccola? Ebbene, altri 10 anni più o meno passarono ma si arrivò a capire che quella traslocazione indicava la presenza appunto di un nuovo gene (maligno) che produceva una specifica proteina, definita p210, che funzionava come un “lievito leucemico”. Nel gene maligno, al contrario che nella cellula sana, manca qualsiasi meccanismo di controllo, in questo modo la produzione di globuli bianchi, rossi e piastrine è totalmente disordinata. Anche la proteina maligna viene prodotta senza controllo. Ricordiamo che il Paziente con mieloide cronica ha tanti globuli bianchi, tante piastrine e una milza grande ma sta discretamente all’inizio della malattia. Ma dopo qualche mese o pochi anni questa malattia da cronica diventa acuta: anemia, febbre, trasfusioni, cure inefficaci portano alla morte del Paziente. La colpa è sempre di P210 che approfitta del disordine generato per minare ulteriormente le radici del midollo stesso e portarlo sulla via senza ritorno delle fasi finali della mieloide cronica. E così abbiamo individuato il mandante (il cromosoma di Philadelphia e la sua traslocazione, il nuovo gene maligno) e l’esecutore materiale, P2010. Ma ancora mancava la terapia efficace. Sarebbe servita, è chiaro, un’arma molto molto sofisticata…
A questo punto la Ricerca, sempre la Ricerca, passa dai laboratori delle università ai laboratori delle aziende farmaceutiche. Brian Druker, un Ricercatore dell’università dell’Oregon, individuò la possibilità di inibire questo lievito leucemico (P210) con un farmaco specifico. Si chiamava (nome sperimentale) STI571, stava per nascere imatinib (Glivec). Fu grazie ai laboratori di Ciba-Geigy (divenuta poi Novartis) che il farmaco divenne disponibile per uso clinico. Ricordo che il responsabile della Ricerca di questa azienda definì, con la tecnologia disponibile all’epoca (metà anni 90’) la possibilità di trovare un farmaco come “trovare un ago nel pagliaio”.
Come funzionava? Semplicemente (!) sostituendosi al lievito si evitava tutto quanto accadeva a valle, tagliando le radici alla mieloide cronica. A Bologna al Seràgnoli ebbi il privilegio di somministrare le prime compresse (con quanta emozione!) ad una giovane Paziente con mieloide cronica, in fase avanzata (P210 aveva già alterato tanto quel midollo, troppo…). Ebbe mesi di benessere, i suoi globuli bianchi si normalizzarono e scomparve la febbre. Solo per alcuni mesi poi la malattia fece il suo corso… Stavamo imparando che l’uso di questi farmaci inibitori andava fatto il prima possibile, non si poteva lasciare spazio a P210. Altri farmaci simili a imatinib si sono aggiunti e nel corso degli anni la sopravvivenza dei Pazienti con mieloide cronica è divenuta simile a quella delle persone di pari età non portatori di questa malattia.
Gli anni dal 1999 ad oggi hanno visto, anche al “Seràgnoli” (che è stato il centro principale in Italia per la Ricerca clinica e di laboratorio), l’espletamento di numerosi studi clinici che hanno affinato e ottimizzato l’impiego di questi farmaci. La storia non è finita: la mieloide cronica non è stata sconfitta del tutto, manca l’ultima spallata per eliminare completamente le piccole (e inoffensive) tracce di malattia che restano. Molti Pazienti vivono ora una vita normale senza assumere farmaci ma eseguendo solo periodici esami di sangue, da 2 a 4 volte l’anno. La Ricerca continua, la storia continua