La Leucemia Mieloide Cronica (LMC) è una patologia del sangue relativamente rara, con frequenza crescente con l’età. Tale malattia fino agli anni ‘80 era molto difficile da curare: nonostante all’esordio i sintomi della LMC fossero infrequenti o di scarso rilievo e malgrado le persone malate mantenessero una fase prolungata di benessere relativo (fase cronica), in assenza di cure efficaci e dopo un intervallo di tempo variabile da alcuni mesi a diversi anni, la malattia andava incontro ad una trasformazione più o meno rapida in una leucemia aggressiva molto difficile da curare (“crisi blastica”). Oggi, dopo molti anni, le cose sono significativamente cambiate: i farmaci disponibili sono numerosi e consentono, non solo di garantire una vita normale a quasi tutti i pazienti trattati, ma anche di ottenere talora una risposta talmente efficace da poter raggiungere una vera e propria “guarigione”, con sospensione del trattamento senza ripresa di malattia. In questo articolo ripercorreremo insieme la storia della terapia della LMC, scoprendo come una malattia neoplastica fino ad alcuni anni fa molto grave sia diventata uno dei maggiori successi della medicina moderna grazie all’impiego innovativo di “farmaci intelligenti” e sia oggi considerata un “modello” per la cura dei tumori.
La LMC è stato il tumore del sangue in cui per la prima volta è stata identificata in maniera dettagliata l’alterazione responsabile del processo neoplastico. Le prime informazioni risalgono al 1960, quando due ricercatori americani, Nowell e Hungerford, si accorsero che tutte le cellule malate in pazienti con LMC presentavano un cromosoma più piccolo del normale; questo cromosoma anomalo fu chiamato cromosoma di Philadelphia dal nome della città dove avvenne questa scoperta. Negli anni successivi si comprese che l’anomalia osservata era legata ad un scambio di materiale genetico tra il cromosoma 9 ed il cromosoma 22. Per effetto di questa traslocazione t(9;22)(q34;q11) si determina una rottura del gene ABL (cromosoma 9) e del gene BCR (cromosoma 22), con formazione di un gene ibrido BCR-ABL (Fig. 1). Questo nuovo gene causa la produzione di una proteina, ad attività tirosino-kinasica, che funziona da “interruttore molecolare” ed attiva la cellula leucemica, conferendole la capacità di proliferare in modo incontrollato.
Per molti anni l’evoluzione in crisi blastica dei pazienti affetti da LMC è stata considerata un evento inevitabile e l’unico obiettivo perseguibile era il “contenimento” della malattia con farmaci chemioterapici tradizionali. La sola alternativa, a partire dagli anni ’80, era il trapianto di cellule staminali allogeniche, per i pochi che disponevano di un donatore e che erano sufficientemente giovani per affrontare la procedura. Il primo farmaco che negli anni ’90 mostrò che era possibile in alcuni casi prolungare la sopravvivenza delle persone malate senza effettuare un trapianto fu l’interferone; tuttavia, soltanto i più giovani potevano tollerare gli effetti collaterali di questa medicina e solo il 15-20% delle persone trattate raggiungeva risultati soddisfacenti.
Verso la fine degli anni 90’ arrivò un nuovo farmaco, l’imatinib, capace di legare in modo selettivo la proteina-kinasi prodotta dal gene BCR-ABL, bloccandone la funzione. Questa terapia “mirata” o “intelligente” era potenzialmente capace di “spegnere” il processo neoplastico, evitando la progressione della malattia. La sperimentazione clinica dell’imatinib ne confermò l’efficacia e nei primi anni del nuovo millennio l’imatinib divenne la terapia di riferimento per i pazienti affetti da LMC, riuscendo a ridurre la probabilità di progressione in fase avanzata a meno del 10% (Fig. 2).
L’imatinib ha rivoluzionato il trattamento della LMC ed è stato il capostipite di una nuova categoria di farmaci, gli inibitori delle tirosino-kinasi (TKI). Tra i TKI di seconda e di terza generazione, impiegati inizialmente soltanto nei pazienti resistenti o intolleranti ad imatinib, alcuni sono stati registrati anche per la terapia di prima linea della LMC (nilotinib e dasatinib), mentre altri possono essere utilizzati soltanto dalla seconda linea in poi (bosutinib e ponatinib). I nuovi TKI sono più potenti nei confronti del bersaglio BCR-ABL, sono attivi verso la maggior parte delle forme mutate e sono generalmente ben tollerati, anche se possono raramente presentare effetti collaterali che possono limitarne l’impiego. Grazie all’efficacia dei TKI, il trapianto viene attualmente riservato solo a casi selezionati di pazienti resistenti ad almeno due TKI o in fase avanzata di malattia.
Negli anni l’uso di farmaci sempre più potenti ha consentito di rendere sempre più piccola la taglia della malattia minima residua, richiedendo una evoluzione delle tecniche di monitoraggio ed un cambiamento degli obiettivi terapeutici. Un tempo ci si accontentava di una risposta ematologica, cioè di una normalizzazione dei parametri emocromocitometrici. Poi è stata dimostrata l’importanza di una risposta citogenetica completa (“scomparsa” del cromosoma di Philadelphia all’esame citogenetico midollare) e di una risposta molecolare maggiore (riduzione del livello di trascritto BCR-ABL < 0.1% IS nel sangue periferico), perché i pazienti capaci di ottenere tali risposte ottenevano una probabilità di sopravvivenza uguale a quella della popolazione generale. Negli ultimi anni è stato dimostrato che, almeno per una parte dei pazienti, è possibile non soltanto raggiungere una aspettativa normale, ma anche una sospensione del trattamento. Questo risultato oggi sembra perseguibile in un numero crescente di pazienti grazie ad una terapia basata sugli inibitori delle tirosino-kinasi: si calcola che circa il 15-20% dei pazienti in terapia con imatinib possa tentare una sospensione, ma tale numero potrebbe essere incrementato con l’uso dei nuovi TKI. I pazienti che possono tentare una sospensione sono coloro che raggiungono una risposta molecolare profonda stabile (MR4.0 da ameno un anno) dopo una terapia prolungata con TKI e che possano accedere ad un adeguato monitoraggio molecolare presso un laboratorio accreditato: circa la metà di questi pazienti resterà in remissione molecolare dopo la sospensione del trattamento, mentre la restante metà avrà un incremento del trascritto BCR-ABL, con necessità di riprendere la terapia con TKI. La sospensione della terapia con TKI in presenza degli adeguati requisiti è considerata sicura, poiché i pazienti che devono riprendere il trattamento recuperano rapidamente una risposta ottimale; in Centri altamente specializzati la sospensione del trattamento può essere tentata anche al di fuori di studi clinici sperimentali.
I successi ottenuti nell’ambito della terapia della LMC enfatizzano l’importanza di una conoscenza approfondita dei meccanismi patogenetici delle neoplasie ematologiche, dimostrando che le acquisizioni biologiche possono consentire lo sviluppo di terapie mirate, con il raggiungimento di risultati, come la guarigione in assenza di trattamento, fino a pochi anni fa considerati utopistici.