Mentre scrivo queste note tu sei ancora qui con noi, anche se so che ormai si tratta di pochissimo tempo.
Non so come riassumere in poche righe il nostro rapporto, mi sembra un insulto anche solo provarci, ma una parte di me non vuole lasciare che questo momento passi senza le mie parole: le stesse che ti piacciono tanto, perché secondo te io sono una scrittrice fantastica. Liceo Classico come la Nonna.
Una volta qualcuno ci definì “una bella coppia”. Mi colpì sentirmi associare a te come un duo, io che ti ho sempre visto circondato da uno stuolo di persone qualsiasi cosa facessi, non pensavo certo che qualcuno potesse identificarti con me, soltanto una dei tuoi otto nipoti, dopo quattro figli, un fratello, una moglie e innumerevoli amici, colleghi e pazienti.
Eppure tu sei un po’ il mio compare.
Per tutti noi sei stato il Professor Tura prima ancora che io capissi cosa fosse un Nonno. I tuoi meriti in campo scientifico ed accademico non si contano sulle dita di due mani, ma questo lo sappiamo tutti. L’ematologia italiana, la mia città, Bologna, l’Associazione Italiana per la lotta alle Leucemie e i tumori del sangue, l’Università Alma Mater Studiorum, il Policlinico Sant’Orsola e la ricerca scientifica in generale perderanno una grande guida. Più di un medico perderà un mentore. Innumerevoli pazienti perderanno quella mano sempre tesa ad aiutare chiunque si trovasse in difficoltà, chiunque avesse paura. Paura del futuro.
Paura di non avere un futuro.
Quante vite sono passate sotto le tue mani. Quante altre stanno continuando grazie a quelle mani, funzionanti solo a metà perché l’anulare e il mignolo sono bloccate da quando ho memoria. Chissà cosa avresti fatto con due mani utilizzabili al 100%.
Dietro al Professor Tura, anzi, dentro, c’era un uomo semplice. C’era un ragazzino poverissimo che aveva tanta voglia di giocare a pallone e poca di studiare, quando non passava le estati a lavorare per aiutare i suoi genitori. C’era un maturando che veniva rimandato a ottobre proprio in scienze, perché non sapeva il nome scientifico di globuli bianchi, globuli rossi e piastrine. C’era un ragazzo, appena 18enne, che decise che avrebbe fatto il medico a tutti i costi, anche se questo significava studiare la notte sui libri degli altri, quando avevano finito, perché non poteva permettersene di suoi. C’era un giovane romagnolo molto scafato, con il “bavero” della polo sempre alzato e gli occhiali da sole da aviatore, determinato a fidanzarsi con una ragazza mezza marchigiana e mezza spagnola, un po’ snob, che sognava un uomo con cui discutere di grandi classici della letteratura latina e che con un tipo come lui non ci sarebbe mai uscita. Sono stati sposati 61 anni.
Dentro al Professor Tura c’era senza dubbio un padre severo. Si sprecano i racconti sulle regole ferree che imponeva a mia mamma, le stesse che ha provato a propinare a me, anche fino a poco fa, quando a 28 anni suonati gli dissi che sarei uscita a mangiare un gelato e mi rispose “okay, a casa per le 21”.
Dentro al Professor Tura c’era un uomo dotato di una grande sensibilità, ma con un altrettanto grande disagio per le esternazioni. C’era un’asticella che si alzava sempre di più, risultato dopo risultato, per tutti noi, ma in primo luogo per se stesso. Non era impossibile compiacerlo, ma non era mai finita. Realizzato un traguardo, ce ne ha sempre sottoposto un altro. E poi un altro. E poi un altro ancora, come faceva con se stesso. E quando non ha potuto fissarsene di nuovi, i nostri sono diventati i suoi. I miei sono diventati i suoi. Non mi dimenticherò mai lo sguardo di fierezza con cui mi ha accolto il giorno in cui sono stata bocciata all’esame di avvocato. “Non devi piangere Isabella. Oggi sono loro che dovrebbero piangere. Tu sei uscita di lì a testa alta, loro no”. Sapessi cosa avrei dato per darti quell’ultima soddisfazione, invece di un dispiacere.
Dentro al Professor Tura c’è stata la speranza di tante persone. Uno sguardo sicuro, umano, semplice. Era proprio la sua semplicità a trasmettere fiducia agli ammalati, io credo. Riconoscevano in lui chi un padre, chi un nonno, chi un amico. E si aprivano. E aprendosi si sentivano meglio. E quando uno si sente meglio, anche la malattia va meglio. Quella malattia impietosa che hai passato la vita a combattere e che alla fine ha beccato anche te.
Dentro al Professor Tura c’era un leone, di sangue romagnolo. Se penso a tutte le volte che sono uscita da quella casa convinta che non ti avrei mai più rivisto; invece io poi tornavo e tu alla fine c’eri sempre, c’eri ancora. Ed eri ancora lucido. Anche ora, mentre io sto praticamente scrivendo un discorso da funerale, tu sei presente. Chissà cosa mi diresti se sapessi cosa sto facendo. Sicuramente di studiare invece di perdere tempo al telefono.
Dentro al Professor Tura c’era la mia infanzia. Sono poche le persone che hanno avuto il privilegio di crescere con i nonni, e quando dico crescere intendo vivere a 200 mt di distanza da tutta la vita. Intendo varcare quella soglia dopo ogni vittoria e dopo ogni sconfitta, con una vaschetta di gelato o una bottiglia di vino buono, a prendersi un po’ di complimenti e a lamentarsi un po’ dei genitori. A chiedere i racconti della Guerra, di come è stato andare a Berkeley. A farsi fare le versioni di latino o spiegare le guerre puniche. A chiedere 20 euro per uscire con le amiche. Intendo prendere treni nelle giornate più disparate, dalle regioni più disparate, per soffiare con loro sulla ottantesima candelina. Intendo arrivare emozionati ad ogni singola Vigilia in attesa dei tortellini in brodo. Intendo imparare cosa significa assistere. Assistere alla vecchiaia, assistere alla stanchezza, assistere alla morte. Imparare a cambiare pappagalli e a fare notti in ospedale con 4 lattine di Coca Cola a controllare se il respiro è normale. Imparare a fare da stampella. Imparare ad avere pazienza. Imparare a non lasciare un anziano da solo, neanche quando sclera, neanche quando non c’è niente da raccontare e il suo e il tuo umore sono pessimi entrambi, perché ogni singolo istante non torna più.
Dentro al Professor Tura c’era mia Nonna, che era la mia metà. E da quando se ne è andata abbiamo fatto di tutto per addolcirti la sua assenza, per non farti pesare la sua mancanza più del dovuto. Ma la verità è che proiettavo lei su di te, e stando con te mi sembrava che fosse un po’ meno morta.
Da domani, o da fra qualche giorno, non potrò fare nemmeno più questo e a dirla tutta non mi è ben chiaro come farò. Ma il tuo sangue romagnolo scorre anche nelle mie vene, e lo sento già che brucia di energia per farci tirare su. Nel frattempo tu andrai da Lei, e non c’è pensiero che mi dia più serenità.
Ti voglio bene Nonno, essere tua nipote è stato il più grande onore della mia vita, e spero di continuare a renderti fiero anche da lassù. Alzami sempre l’asticella che lo sai che sono pigra.
Mi manchi già anche se sei ancora qui, e penso che mi mancherai per sempre.
La tua Cocca.
Isi